Ahmed Sa’adat: «La Palestina sarà liberata dal popolo escluso dalle élite»

Inviato da redazione il Lun, 12/11/2018 - 14:55
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libertà per Ahmed Sa’adat

Intervista. Per la prima volta dopo oltre un decennio, il segretario generale del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina parla con un giornale straniero dal carcere:    «La via per la libertà: il ritorno dei rifugiati e la creazione di un unico Stato libero, democratico e laico. Per farlo dobbiamo ricostruire il nostro movimento nazionale, l’Olp»
Stefano Mauro

Ahmed Sa’adat è diventato segretario generale del Fronte Popolare per
la Liberazione della Palestina (Fplp), il più importante partito della
sinistra radicale palestinese, nel 2001 dopo l’assassinio di Abu Ali
Mustafa, ucciso da due razzi lanciati da un elicottero israeliano
contro il suo ufficio a Ramallah. Come risposta un commando del Fplp
uccise l’anno seguente Rahavam Zeevi, ministro israeliano e ideologo
della deportazione dei palestinesi. L’Autorità nazionale palestinese
fece arrestare Sa’adat che, nonostante il parere contrario dell’Alta
Corte di giustizia palestinese, rimase nel carcere di Gerico fino al
2006.

Quell’anno, in violazione di qualsiasi convenzione internazionalmente
riconosciuta sulla detenzione, i militari israeliani prelevarono
Sa’adat, lo deportarono nelle carceri israeliane e lo condannarono a
30 anni di carcere come «referente politico» di un’organizzazione
considerata da Tel Aviv come «terrorista». Da allora vive nelle
carceri israeliane e periodicamente viene tenuto in regime di
isolamento per lunghi periodi, il che ha provocato una campagna di
solidarietà (#FreeAhmedSa’adat) da parte della sinistra internazionale
che ne chiede il suo rilascio.

Il manifesto, grazie alla rete dei detenuti del Fplp, è riuscito a intervistarlo dal regime carcerario in cui è segregato, dopo oltre dieci anni dalle ultime dichiarazioni rilasciate a quotidiani stranieri.

Come valuta la situazione attuale in Palestina e l’atteggiamento
dell’amministrazione Usa di Donald Trump?

Per prima cosa voglio ringraziare il manifesto per questa intervista.
È fondamentale comunicare ai lettori italiani e spiegare la visione
della sinistra palestinese per l’attuale situazione in Palestina e
nella regione. Vediamo gli Usa e l’amministrazione Trump come un
potere pericoloso non solo per il popolo palestinese, ma per tutti i
popoli del mondo. L’unica differenza tra Trump e le precedenti
amministrazioni è che Trump mostra chiaramente la vera faccia del
capitalismo e dell’imperialismo portando all’estremo l’utilizzo
dell’egemonia e dello sfruttamento.

La decisione di nominare Gerusalemme capitale dello Stato israeliano e
di spostare l’ambasciata da Tel Aviv è la naturale continuazione di
100 anni di colonizzazione in Palestina, dalla dichiarazione Balfour
(1917), con l’obiettivo di annullare i diritti dei palestinesi e di
accelerare la pulizia etnica del nostro popolo, specialmente per
quanto riguarda Gerusalemme. Tutti i palestinesi rifiutano e
combattono i tentativi di Trump di eliminare la questione palestinese.
Il nostro popolo sta contrastando questo tentativo non solo a parole,
ma con i fatti che sono la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una vera
e propria rivolta popolare, dove è presente anche il Fplp, simile allo
spirito della prima Intifada.

Ahmed Sa’adat dietro le sbarre

Quale strategia permetterebbe oggi la ricostruzione di un forte
movimento di liberazione palestinese?

Il principale compito è la ricostruzione e la riunificazione del
movimento nazionale di liberazione della Palestina. L’obiettivo
principale è di mettere la Palestina, per l’ennesima volta, sulla
strada della liberazione riaffermando l’essenza stessa della lotta
palestinese. Questo riguarda principalmente il ritorno dei rifugiati e
la costruzione di un unico Stato libero, democratico e laico in
Palestina – non quella dei confini del 1967 – dove qualsiasi cittadino
possa vivere in pace senza distinzione di religione o razza. Una
profonda frattura nel movimento palestinese, a livello storico, c’è
stata sicuramente dopo gli accordi di Oslo nel 1993: ha distorto il
vero significato della nostra lotta e la reale essenza del conflitto.
Un’intera generazione di palestinesi è nata e cresciuta illusa dopo la
firma di quel catastrofico documento che ha portato solamente
divisione e frammentazione nel movimento di liberazione palestinese.

Proprio in quest’ottica il nostro impegno è quello di ricostruire il
fronte di liberazione nazionale, cioè l’Olp (Organizzazione per la
Liberazione della Palestina): noi ci vediamo in mezzo tra Fatah e
Hamas per creare un equilibrio e salvare l’unità nazionale, portando
la nostra idea progressista, di sinistra e di rappresentanza di
popolo. Tutte le classi palestinesi devono essere parte di questo
processo di unità e le classi popolari non devono essere escluse dalla
leadership del movimento, come lo sono state negli ultimi 40 anni.

Quale alternativa politica suggerisce quindi il Fplp?

Pensiamo che la premessa principale del cambiamento sia la
partecipazione popolare in modo di consentire ai palestinesi di
partecipare alla lotta – e al processo decisionale politico – in modo
efficace e significativo. Ciò richiede non solo la lotta contro
l’occupazione, ma anche la lotta per il diritto dei palestinesi a
parteciparvi. Ad esempio, in Giordania, ci sono oltre quattro milioni
di palestinesi. Lo stesso vale per i palestinesi in Libano, Siria e
altrove, così come per quelli in Palestina. La partecipazione e la
leadership popolare sono necessarie per la ricostruzione del movimento
di resistenza contro il sionismo e per l’attuazione di una strategia
unitaria per la liberazione della Palestina. Questo ovviamente deve
avvenire in Palestina come nei territori della diaspora, in Europa o
nelle altre parti del mondo dove ci sono palestinesi.

Se le nostre comunità sono sempre minacciate da ogni tipo di
criminalizzazione, leggi repressive e attacchi da parte delle destre,
allora i nostri obiettivi saranno più difficili da realizzare. Il
punto fondamentale della nostra visione si fonda su questo: il diritto
delle persone a partecipare allo sviluppo del loro futuro. È il
processo democratico di rappresentanza per il quale stiamo combattendo
a differenza di chi ha egemonizzato il popolo palestinese.

Nel 2017 il Fplp ha festeggiato il 50° anniversario dalla sua
fondazione. Come valuta il suo ruolo attuale?

Il Fronte ha concluso il suo settimo congresso all’inizio del 2014 e
ora ci stiamo avvicinando all’ottavo. Sarà un’opportunità per tutti i
nostri compagni, dentro e fuori la Palestina, di valutare i nostri
progressi e le nostre sconfitte. Negli ultimi anni, il Fplp ha
affrontato tremende difficoltà in termini di repressione politica e
finanziaria. Le persecuzioni, gli arresti di massa e l’uccisione dei
nostri quadri ne sono un chiaro esempio. Nonostante ciò, siamo
migliorati nelle nostre capacità militari a Gaza perché non
affrontiamo le stesse condizioni che abbiamo in Cisgiordania. Lì
subiamo sia l’occupazione che il coordinamento sulla sicurezza
dell’Autorità Palestinese: numerosi compagni, come me, sono
imprigionati proprio a causa del coordinamento tra l’Anp e
l’occupante. Siamo, però, presenti in tutte le forme di lotta
(militare, politica, culturale, sociale) all’occupazione e abbiamo
fatto progressi in termini di partecipazione popolare anche tra i
giovani, ma è sempre difficile ottenere dei risultati e visibilità (in
confronto a Fatah e Hamas, ndr) a causa della situazione attuale.
Nonostante le difficoltà siamo sempre impegnati in un processo di
costruzione e crescita.

Quanto è cambiato il Fplp dalla sua fondazione fino ad ora?

È cambiato molto in questi anni, parliamo di mezzo secolo. Sono
quattro le fasi nella vita del nostro partito. Il primo, che potrebbe
essere identificato come «l’era giordana», dal 1967 al 1972; il
secondo, l’esperienza della Rivoluzione palestinese e del Fplp in
Libano, dal 1973 al 1982; la terza, la prima grande rivolta popolare
palestinese, l’Intifada, dal 1987 al 1993; e per concludere la
messinscena del cosiddetto processo di Oslo. I cambiamenti hanno
interessato il Fronte su diversi livelli: politico, teorico,
organizzativo. Queste trasformazioni ci hanno colpito come hanno
toccato altri partiti: le guerre nella regione, gli accordi di pace
tra i regimi arabi e Israele, la caduta dell’Unione Sovietica e del
blocco socialista e il processo di svendita della nostra terra,
etichettato come «processo di pace».

Tutti questi fattori hanno influenzato il Fronte, la sua forza e la
sua analisi. Abbiamo fatto scelte ed errori che ci hanno penalizzato e
che sono emersi, per alcune contraddizioni interne, anche nei
precedenti congressi, visto che ci siamo sempre impegnati
nell’autocritica. Siamo arrivati alla conclusione, dal 1992 a oggi, a
causa delle destre palestinesi e la continua aggressione israeliana
alle nostre terre e al nostro diritto di esistere, che il nostro
partito, come il nostro popolo, attraversano una crisi globale:
teorica, politica, economica. Pensiamo che questa cripossa essere
superata solo attraverso la resistenza e la lotta popolare a qualsiasi
livello.

Qual è il ruolo del movimento dei detenuti nelle prigioni israeliane?

Il movimento dei prigionieri nelle carceri israeliane ha storicamente
svolto un ruolo importante e centrale nella lotta all’oppressione
sionista. Non solo nel nostro confronto quotidiano tra occupanti e
prigionieri, come «prima linea», ma anche nella scena politica in
Palestina. Bisogna ricordare che l’accordo di unità nazionale
palestinese, chiamato «Documento dei Prigionieri», è stato redatto
all’interno delle prigioni e costituisce la base di tutte le
successive discussioni della resistenza palestinese. Il movimento dei
prigionieri ha vissuto varie esperienze di lotta, scioperi della fame,
con la morte di numerosi prigionieri sotto tortura. Noi detenuti
politici siamo stati definiti l’avanguardia e il cuore della
rivoluzione palestinese. Questo perché Israele stesso tenta di
contrastare la lotta palestinese e i suoi leader con la reclusione,
opprimendo qualsiasi movimento di resistenza: studentesco, femminista,
sindacale o giovanile.

Le prigioni sono da sempre un luogo in cui tutte le differenti anime
della resistenza si incontrano ed è proprio per questo che i
palestinesi spesso definiscono le carceri «le scuole della
rivoluzione». Non siamo separati dal movimento di liberazione fuori
dalle prigioni, ma siamo un tutt’uno visto che i prigionieri
provengono da tutti i Territori: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme.
Consideriamo come parte del nostro movimento anche i prigionieri
politici palestinesi nelle carceri americane e francesi, in
particolare Georges Ibrahim Abdallah, imprigionato in Francia da oltre
34 anni.