La tendenza all’aggregazione di nuovi poli imperialistici - tendenza alla guerra e all'economia di guerra del capitalismo – green washing e l’ipocrisia di un’economia capitalista “sostenibile” - riflessi della crisi sul fronte interno, tendenza all'autoritarismo - repressione e D.D.L. 1660.
“Siamo gli ultimi a negare che esistano contraddizioni nel capitale.
Il nostro scopo è piuttosto quello di svilupparle appieno”
Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica
E’ innegabile che lo scenario internazionale veda il progressivo allargamento e l’intensificazione dei conflitti bellici e che la possibile escalation militare verso la catastrofe mondiale sia molto più che un’ipotesi remota o uno scenario da narrazione distopica. Ciò in quanto tali dinamiche rappresentano, oltre che la diretta conseguenza, anche una costruita possibilità agita dal declinante imperialismo atlantista per una duplice finalità strategica: da un lato, per il possibile rilancio di cicli di accumulazione per economie fiaccate dalla crisi strutturale e, dall’altro, per cercare di indebolire, in un contesto sempre più multipolare e instabile, i propri antagonisti in consolidamento e rafforzamento. E’ possibile pertanto descrivere l’attuale grado in cui versa la crisi sistemica anche quale conflitto generalizzato tra capitali in incessante (e crescente) competizione per superare le difficoltà di valorizzazione date dall’eccesso di accumulazione e in conflitto per l’accaparramento di risorse, profitti (da economia “reale” e produttiva) e rendita finanziaria.
L’IRRAZIONALITA’ DEL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO
E’ noto che la ciclicità del verificarsi di crisi, generate dal movimento e dalle intime contraddizioni del modo e degli attuali rapporti sociali di produzione, rappresenti anche l’occasione per un rinnovamento sistemico (attraverso la modifica delle forme – ma non del modo - della produzione stessa, nonché degli ambiti di valorizzazione dei capitali) che permettano la definizione di nuovi equilibri più avanzati che permettano una tenue stabilità (sebbene, nel medio-lungo periodo, non possono che rivelarsi altrettanto provvisori e precari). Certo è che l’attuale crisi (strutturale), per l’elevato grado di maturazione raggiunto, evidenzia tutta l’irrazionalità di un sistema in cui i rapporti sociali di produzione dati rappresentano il concreto ostacolo per un ulteriore sviluppo del livello raggiunto dalle forze produttive e in cui la ricchezza sociale prodotta è concentrata nelle mani di un numero sempre più esiguo di soggetti. Ciò a maggior ragione ove si osservi che le crescenti difficoltà per il capitale complessivo di valorizzarsi, nonché di adeguare la propria struttura per la ricerca della massimizzazione del profitto, è oggi aggravata dall’inefficacia di tutte quelle misure economiche e sociali che nel corso del tempo hanno rappresentato, anche solo parzialmente, un freno alla progressiva stagnazione e alla inesorabile caduta del tasso di profitto complessivo.
La logica conseguenza di questa inadeguatezza – e diverse evidenze già vi sono a dimostrarlo – è lo scaricarsi sulla situazione di estrema confusione e indeterminatezza dello scontro intercapitalistico in atto e della conseguente accelerazione della tendenza al conflitto in ogni forma, anche bellica, e alla distruzione (anch’essa, comunque intime e intrinseche al modo di produzione capitalistico: capitalismo e guerra non possono che alimentarsi vicendevolmente).
La profonda spinta data dal progresso tecnologico e dalla robotizzazione che hanno permesso di razionalizzare la produzione, di ridurne i costi e di velocizzare la circolazione aumentando però, di converso e inesorabilmente, la composizione organica del capitale (il progressivo incremento della sua parte costante - macchine, tecnologie, automazione - a spese del capitale variabile - la forza lavoro -) e la progressiva caduta del saggio di profitto; il ricorso alla finanza speculativa e alla pletora degli strumenti creati per permettere di “scommettere” sui mercati finanziari e ottenere profitti compensando le perdite e/o i rallentamenti della produzione reale che però è stata foriera della creazione di bolle e della loro esplosione; la compressione salariale e l’intensificazione del grado di sfruttamento del lavoro che ha determinato forme parossistiche di nuove schiavitù e di modalità di sfruttamento della forza lavoro che ha creato diseguaglianze inedite e sempre più profonde; l’espansione dei mercati mondiali sino alla loro saturazione e l’aumentata competizione per risorse finite e per il controllo della logistica internazionale; le politiche di austerity che hanno sterilizzato il consumo e la spesa pubblica, appaiono oggi la cartina di tornasole che ci restituisce l’immagine plastica di un sistema il cui destino ineluttabile è ben diverso dalla sua autorappresentazione anche ideologica: e cioè l’assenza di limiti reali alla ricchezza e allo sviluppo inarrestabile dei rapporti di produzione sottesi.
Le dichiarazioni delle classi dirigenti delle potenze mondiali che seguono quelle delle rispettive borghesie nazionali, le risposte che stanno pianificando, rendono evidente la loro consapevolezza circa gli strumenti da utilizzare per rilanciare una nuova accumulazione nel tentativo di superare le difficoltà predette. E questi non possono che tradursi in ulteriori misure di attacco al lavoro e alle masse popolari, nel continuo drenaggio di risorse in favore dei profitti, nella compressione della spesa pubblica (anche per favorire l’espansione dei processi di privatizzazione dei servizi e dei diritti sociali sino a oggi considerati universali) e allo sgretolamento delle residue tutele, in quella complessiva lotta di classe che da anni il padronato sta conducendo nei confronti del proletariato.
E’ infatti ormai evidente, come anticipato, che l’implementazione alla produzione data dalla robotizzazione, dalla automazione e dalla prima informatizzazione abbia comportato nel lungo periodo una sovra-accumulazione di capitali a livello mondiale e il correlato eccesso di capacità produttiva (e del suo concreto pieno utilizzo alle condizioni date di domanda). Il progressivo investimento in capitale costante (macchinari, infrastrutture, software, ecc.), favorito dall’inaudito ed esponenziale sviluppo tecnologico, ha disegnato nuove forme di modalità di produzione nel quale il capitale variabile è arrivato ad essere considerato superfluo o comunque ridimensionato nei numeri e nell’apporto, ma che determina il progressivo aumento della composizione organica con inevitabile riduzione del saggio dei profitti realizzabili.
LA FONTE DEL VALORE PER IL CAPITALE RIMANE LA FORZA LAVORO E IL SUO SFRUTTAMENTO.
La fonte del valore per il capitale rimane infatti la forza lavoro e il suo sfruttamento (anche in termini assoluti, come in tutti quei settori ove prevalente rimane l’elevato grado di intensità e il prolungamento del tempo di lavoro: dalla logistica, alla ristorazione, alle pulizie, ecc.) e il capitale non può infatti sopprimere l’estrazione di plusvalore quale sostanziale meccanismo di appropriazione e di generazione di profitti (la forza lavoro rimane comunque la fonte di valore).
Certo è che dalla tendenza al mutamento del rapporto tra capitale fisso e variabile a favore del primo, favorita – come detto – anche da nuovi paradigmi tecnologici (internet delle cose, IA, ecc.), discende quale conseguenza la riduzione numerica della forza lavoro necessaria alla produzione con il corollario che la stessa, sempre per il fine della massimizzazione dei profitti, debba essere altamente flessibile e scarsamente retribuita. L’esplosione, in tutto il centro capitalista, della modulazione delle forme di sfruttamento mediante l’utilizzo sempre più sofisticato della contrattazione precaria, l’attacco e la criminalizzazione delle forme di solidarietà e di antagonismo della classe operaia, l’assenza di reali politiche espansive di sostegno al lavoro e al salario complessivamente inteso (diretto e indiretto) hanno quale conseguenza la contrazione della domanda e quindi, in ultima istanza, l’ulteriore difficoltà di valorizzazione del capitale investito nel medio-lungo periodo. Peraltro, a sostegno di questo vi sono i numeri di cui al recente rapporto Eurostat sul “Quadro di valutazione sociale” che inesorabilmente descrive che, mentre la media del reddito reale dell’Europa è comunque in progressione (da 110,12 a 110,82 punti ove 100 è il valore del 2008), quella italiana cala è in calo (da 94,15 a 93,74 punti) registrando così un reddito reale nel nostro paese inferiore a quello della crisi finanziaria di quindici anni fa. Ciò a conferma di quanto segnalato anche dall’OCSE: siamo il paese dell'Europa occidentale industrializzata con il più basso costo del lavoro e i salari più bassi. Ciò in contesto, soffermandoci sul piano nazionale, in cui la produzione è in forte calo (soprattutto il tessile, l’abbigliamento e la meccanica, principale comparto manifatturiero italiano) e nel quale la stessa, nel corso degli anni, è stata irrorata e sostenuta da sussidi pubblici, nel quale predominano il plusvalore assoluto (elevati tassi di sfruttamento) e la pressoché assenza di investimenti (e quindi con bassa produttività) in quanto i capitali vengono stornati verso la più rapida profittabilità della rendita finanziaria (e/o immobiliare). E tale calo della produzione è anche trainato dalla contrazione delle esportazioni soprattutto verso la Germania, principale mercato di sbocco dei prodotti, anch’essa comunque in crisi dall’inizio della guerra combattuta in suolo ucraino. Ma le medesime tinte fosche possono essere utilizzate anche per descrivere la situazione del prossimo autunno/inverno: il nuovo patto di stabilità comunitario, che ha reintrodotto nei fatti misure di austerity, prevede ulteriori piani di rientro del debito pubblico per i singoli paesi membri e tagli alla spesa draconiani. Come si legge giornalmente sui quotidiani, il governo è a caccia delle risorse necessarie (una decina di miliardi) per non dover effettuare quei tagli che potrebbero inficiare il consenso sin qui mantenuto (soprattutto per il tramite della reflazione salariale attraverso il fisco: ad esempio, il regime forfettario per i lavoratori autonomi o il taglio del cuneo). E quindi vengono programmate ulteriori svendite e privatizzazioni del patrimonio statale, ovvero soluzioni premiali per chi accetta di rimanere al lavoro ben oltre la maturazione dei requisiti pensionistici per cercare di evitare di colpire eccessivamente le pensioni e le già martoriate sanità pubblica e ricerca universitaria.
Non solo. L’eccesso di accumulazione di capitali non valorizzabili è incrementata da un lato dall’astratta scomparsa ovvero dalla tendenziale diminuzione di nuovi mercati e territori che il centro capitalista poteva in passato utilizzare per esportare i capitali prodotti in eccesso e, dall’altro, come anticipato, dalla serrata competizione mondiale che sta contribuendo alla ridefinizione delle interlocuzioni e delle alleanze e che sta facendo saltare le passate egemonie e gerarchie (anche monetarie). Un mondo nel quale il tentativo di tradurre in realtà un rinnovato multipolarismo è concretamente in atto. Tale dinamica di competizione è altresì incrementata dalle prime fasi della possibile eclissi della egemonia del dollaro quale unica valuta di riferimento e di scambio nel mercato internazionale, nel quale ormai numerose transazioni commerciali vengono effettuate anche con altre valute (in particolare, utilizzando il rublo e il renminbi cinese), seppur sia ancora innegabile il ruolo preponderante e pressoché esclusivo della “moneta verde” quale valuta di riserva mondiale. Ciò vale in particolare per la commercializzazione delle materie prime (tra cui, petrolio, gas naturali, terre rare, ecc.) per le quali tanto i paesi produttori quanto gli acquirenti stanno optando per una diversificazione delle valute da adottare nelle operazioni (su tutte, quale esempio, valga la decisione dell’Arabia Saudita di utilizzare anche la divisa cinese per le transazioni).
Strettamente connessa (e concausa di tali dinamiche) è peraltro la necessità per i paesi cosiddetti “creditori”, tra cui spicca la Cina per importanza e dimensione dei numeri, di valorizzare con maggior profitto sul mercato mondiale le ingenti quantità di capitale accumulate negli ultimi decenni in virtù delle massicce esportazioni di merci e di una bilancia commerciale fortemente in attivo (surplus).
La scarsa remunerazione offerta dai titoli di stato e dalle obbligazioni su cui si concentravano in precedenza gli investimenti di tali capitali e l’arroccamento occidentale con politiche protezionistiche, dazi e barriere tariffarie sempre più stringenti (cui deve aggiungersi, causa la guerra combattuta in suolo ucraino, il sequestro e il congelamento delle riserve valutarie russe), restituisce da un lato il ridimensionamento del potere Statunitense e, dall’altro, il livello estremamente elevato sul quale si confronterà la competizione internazionale (come più volte ribadito, sempre più agguerrita e in estensione). E’ proprio tale scelta di utilizzare il proprio surplus non più finanziando il debito americano con l’acquisto di titoli USA, quanto, piuttosto, di investire nella costruzione di infrastrutture commerciali su scala globale (si pensi alla nuova via della seta cinese terrestre e marittima) ovvero di acquisto di asset industriali importanti (porti, centri di produzione, ecc.) a contribuire a dettare il ritmo dell’incremento della competizione e dei nuovi equilibri. Si assiste così al sostanziale tramonto del sistema di sfruttamento e di predazione finanziaria che ha caratterizzato l’imperialismo americano negli scorsi decenni e, cioè, l’esportazione di moneta attraverso l’acquisto di beni, lo sviluppo di spese militari e l’investimento fuori dai propri confini, che ritornava negli USA per il tramite dell’acquisto da parte dei paesi creditori di buoni del tesoro e titoli ovvero l’acquisto, con capitali valorizzati nei paesi dell’allora sud del mondo e rientrati nel mercato americano per differenti ragioni (ad esempio, a seguito di guerre, speculazioni sulle monete nazionali, rischi per gli investimenti), di interi porzioni di economie locali tra cui ovviamente i “pezzi” più pregiati delle medesime.
NUOVI EQUILIBRI ECONOMICI E GEOPOLITICI IN AFRICA
L’Africa e il Sahel in particolare (Mali, Burkina Faso e Niger) rappresentano il terreno più eclatante di questi nuovi equilibri nei quali la Francia - e nel complesso gli interessi del capitale euroatlantico, in declino nel continente - sono sostituiti dalla penetrazione economica cinese e russa, certamente non indifferenti anche alle risorse ivi presenti. Una sostituzione che è anche frutto dei recenti accordi di collaborazione e alleanza tra questi paesi che hanno sancito l’affrancamento dal decennale saccheggio occidentale. Il recente forum sulla cooperazione Cina-Africa tenutosi a Pechino offre un saliente esempio del rilievo strategico di tali rapporti, per molti versi neocoloniali di cui si discute nell’Impero di Mezzo (non irrilevante è la circostanza che la Cina sia già il primo creditore dei paesi africani). Una penetrazione che si estende anche al mercato della difesa africano con forniture militari e cooperazione nello sviluppo delle capacità industriali delle nazioni del continente. Una penetrazione che però è relativamente offuscata negli ultimi anni dalla crescita dell’influenza turca e araba. L’inatteso esito delle recenti elezioni in Senegal (in cui ha prevalso un giovane leader panafricanista, contrario al perpetuarsi del dominio neocoloniale, soprattutto francese) e le dure rivolte popolari contro le politiche economiche del governo keniota filo-statunitense rappresentano, con ancor maggior evidenza, il mutamento dei pregressi equilibri nei quali la colonizzazione occidentale e i suoi diktat la facevano da padrona condizionando il grado di effettiva autonomia economica e politica di molti paesi post-coloniali. Solo quale esempio di tali dinamiche, si rammenta che è di pochi giorni fa la decisione del governo del Burkina Faso di nazionalizzare le proprie miniere d’oro: una riappropriazione delle proprie risorse per orientarne i profitti a beneficio dello sviluppo nazionale e non di società occidentali. Ciò ha fatto seguito ala decisione della giunta nigerina per quel che concerne le miniere di uranio presenti nel proprio territorio. Considerazioni queste che vengono suffragate dall’analisi della situazione nel continente latino-americano che mostra con estrema ed esemplare chiarezza, da un lato, i rinnovati termini dello scontro a livello globale e i suoi protagonisti, dall’altro, l’evoluzione dei sottesi rapporti di forza e la strenua difesa yankee della propria egemonia in crisi nel proprio “cortile di casa”. Il contesto è di confusa evoluzione: dalle difficoltà del primo ciclo progressista latino-americano che comunque non ha determinato uno spostamento verso il completo riallineamento geopolitico con gli USA stanno comunque emergendo forze nostalgiche e di destra estrema (paradigmatico il governo Milei in Argentina), ma anche l’affermazione della Cina come principale attore economico (commerciale e di investimenti) grazie anche alla costituzione di corridoi logistici speculari alla creazione della nuova “via della seta” verso occidente. E non è mai tramontata l’ipotesi della costituzione di un aggregato economico alternativo che possa rappresentare gli interessi di un continente ricco di risorse e materie prime, reclamando la propria presenza tra le nuove gerarchie mondiali.
Insomma, come per l’Africa, il tentativo è quello di una progressiva integrazione dell’America Latina nella sfera economica asiatica (e il conseguente spostamento verso il Pacifico del centro economico mondiale). Ciò non potrà che porre le basi per una recrudescenza del conflitto intercapitalistico mondiale (e il tentato golpe degli scorsi mesi in Bolivia ne è la vivida testimonianza) su linee di faglia in costante movimento.
TENDENZA AL MONOPOLIO
Infine, ma non meno importante concausa della saturazione e della valorizzazione capitalistica determinata da sovrapproduzione e sovraccumulazione, è l’incessante rafforzamento della centralizzazione di capitali e una evidente tendenza al monopolio in mercati che si stanno frammentando per le politiche protezionistiche citate in precedenza, seppur inevitabilmente e persistentemente globali. Ciò ha permesso, da posizione di forza, l’espansione di soggetti economici (segnatamente, grandi monopoli) in grado di generare profitti tanto da una produzione che corre lungo catene transnazionali quanto da fonti differenti strettamente legate all’espansione di attività finanziarie (di trading e di speculazione vera e propria) giocate su mercati finanziari altrettanto globali. In ciò favoriti, come anticipato in precedenza, anche dalle politiche monetarie e fiscali delle Banche Centrali e dei governi occidentali che, con questo fine specifico, si sono susseguiti nel corso dell’ultimo decennio. Non deve essere, peraltro, dimenticato che la tendenza al monopolio non è solo una necessità economica del capitale ma è anche politica in un duplice senso. Da un lato, essendo il conflitto capitale/lavoro e il controllo sulla lotta di classe il motore di ogni accumulazione, la concentrazione della produzione e del lavoro resta necessaria per governare e prevenire il conflitto; dall’altro, la centralizzazione del potere decisionale è necessaria per avere il completo controllo della produzione del valore nei settori considerati strategici.
SVILUPPO DEL COMPARTO POLITICO/ECONOMICO/MILITARE
Tali scelte peraltro sono state ideate, perorate e avvallate da un personale statale apicale ormai indistinguibile da quello direttamente implicato nella gestione dei grandi gruppi di interesse: si pensi, a titolo esemplificativo, all’attuale Ministro della Difesa Guido Crosetto, già consulente di Fincantieri e Leonardo Spa e, nel complesso, del settore armamenti italiano (è infatti anche ai vertici dell’AIAD, la federazione delle aziende italiane dell’aerospazio). E ciò segnala altresì come pochi soggetti (monopoli), a capo di interessi economici e finanziari estremamente ramificati, abbiano direttamente i propri rappresentanti nelle cosiddette “stanze del potere” statale e nelle istituzioni internazionali a garanzia della tutela di quegli stessi interessi assunti, anche con operazioni di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica, quali generali. E quindi, ma ci torneremo nel prosieguo, il perpetuare di politiche economiche che garantiscano gli interessi della classe dominante o che permettano, rimanendo all’interno dell’esempio precedente, spese in deficit a favore dello strategico comparto difesa. Ciò anche per la proiezione esterna dell’imperialismo di bandiera: tra gli altri, l’esercito italiano è infatti alla guida della missione militare “Operazione Aspides” di sicurezza marittima comunitaria, costituita quale espressa risposta agli efficaci attacchi portati dalle milizie Houthi a sostegno della resistenza palestinese contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso verso i porti europei; nonché, notizia di questi giorni, la conclusione di un accordo tra il capo di Stato Maggiore della Difesa italiano e il suo omologo per il possibile posizionamento di un hub delle forze speciali italiane in territorio giordano.
L’estrazione di plusvalore nell’economia reale (e quindi nella struttura concreta della produzione) è accompagnata – e per molti versi ormai comandata - dai profitti accumulati mediante operazioni finanziarie sempre più sofisticate che drenano le risorse necessarie alla propria valorizzazione dalla prima. Ciò in particolare per quei settori (tecnologie digitali, l’energia, le telecomunicazioni, la farmaceutica) - e per i monopoli presenti in quei settori - che hanno forte rilevanza strategica e quindi attrattività per generare dinamiche speculative e di vera e propria scommessa che ne permette la crescita di valore. E questi profitti di natura finanziaria – favoriti anche dall’immensa quantità di moneta e di credito resi disponibili dalle banche centrali dopo la crisi dei mutui cosiddetti subprime del biennio 2007/2008 – sono divenuti la soluzione privilegiata per la crescita di rendimenti, stante il calo e il minor flusso di quelli strettamente derivanti da attività produttive attanagliate dall’alternarsi di fasi di recessione, rallentamento e stagnazione. L’autonomia del capitale finanziario da quello industriale (comunque parte indispensabile del primo) è però possibile esclusivamente grazie all’azione del potere politico-militare statale e ai rapporti di forza a questo subordinati e gestiti, tanto interni quanto internazionali (atteggiantesi a predazione, espropriazione e colonialismo). E quindi, non semplice subordinazione del capitale “reale” e/o commerciale ma, nel complessivo contesto del mercato mondiale, subordinazione e assoggettamento di quegli stati sovrani che non dispongono né del capitale finanziario né della forza militare per imporsi all’interno del medesimo. L’economia è così inseparabile dai rapporti di forza, anche militari, nei quali la guerra (e la minaccia della guerra) assume rilevanza strategica nella feroce competizione innervata all’accaparramento, alla spartizione e al controllo del mercato mondiale tra molteplici imperialismi.
Ma anche la leva finanziaria soggiace ai limiti propri del sistema di produzione capitalistico (e con questi non può che scontrarsi) generando, in prospettiva crescente ma già diffusa per estensione a livello globale, la costituzione di capitali in eccesso di difficile valorizzazione. Da qui la conseguente formazione di bolle che, artificiosamente o meno, sono costrette a esplodere dalle dinamiche proprie e intrinseche all’attuale modo di produzione. Anche la tendenza del capitale a finanziarizzarsi e a diventare rendita ha quale naturale corollario e non può che determinare altro di diverso dalla strutturazione della guerra quale elemento strategico delle sue politiche.
GREEN WASHING E L’IPOCRISIA DEL “GREEN NEW DEAL”
Tutto quanto descritto in precedenza deve essere infine collocato nel contesto dell’esplosione dell’urgenza (e della portata) della crisi ambientale ed ecologica che si pone come limite proprio (e con dinamiche di sviluppo) esogeno (pur se relative ad un rapporto di causa/effetto) al modo di produzione capitalista e ai sottesi processi di valorizzazione.
La frattura metabolica (cioè, la “incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita” per usare le precise parole di Marx) indotta dal contrasto tra “metabolismo sociale capitalistico” (il processo di lavoro e produzione) e la natura, mostra l’assoluta incompatibilità del capitalismo e delle sue contraddizioni con la complessiva vita biologica (umana e non umana, entrambe degradate per permettere l’accumulazione di valore).
Le molteplici manifestazioni della stessa, comunque determinate dalla rapina e dalla devastazione dell’intero globo terrestre, della flora e della fauna, sono pretesto per supposte “transizioni” verdi, politiche di “green new deal” ovvero di “economia sostenibile”, che vengono accompagnate da ipocrite narrazioni sulla irrealistica possibilità di uno sviluppo sostenibile dell’attuale sistema. Ma tale crisi, irreversibile e in continuo aggravamento, in tal modo anche ideologicamente declinata, diventa possibile fonte di nuova accumulazione per lo stesso soggetto e lo stesso modo di produzione che la provoca e la inasprisce quotidianamente. Sicché per un modo di produzione che si ritiene e si racconta quale unico e “naturale” (se non addirittura, post deflagrazione del Patto di Varsavia, quale approdo finale della “storia”) la narrazione della possibile soluzione interna, con modalità che non mettano in discussione un sistema insostenibile per ogni ecosistema, assume un’ulteriore rilevanza. E cioè l’unanime accettazione, anche da parte dell’odierno maggioritario movimento ambientalista, che la crisi climatica non possa essere condizione politica per uno sbocco rivoluzionario e di alternativa sistemica. Anche la scienza, così declinata e con tali finalità di assoluzione del capitalismo dalle proprie responsabilità, è scienza del capitale e a ciò è intimamente subordinata.
Tra le molteplici conseguenze della degradazione della natura vi è anche il costante incremento delle migrazioni per fuggire da carestie, desertificazione, alluvioni, eventi estremi, e, in generale, dalla estensione e diffusione degli effetti nefasti del c.d. “climate change” su economie rurali ovvero in prevalenza legate al settore agricolo, all’allevamento e alla pesca. Masse e popolazioni pronte a sfidare sia i lager libici e il Mar Mediterraneo e le altre pericolose rotte migratorie (dal corridoio balcanico allo stretto di Gibilterra), sia il rigido regime restrittivo degli stati europei che li subordina alle selettive politiche migratorie e al ricatto del permesso di soggiorno che creano e producono forza lavoro debole e ricattabile da donare allo sfruttamento padronale. E che risultano altresì estremamente utili, dal punto di vista politico ed elettorale, alla miserabile propaganda e all’armamentario razzista e xenofobo della destra nazionale, più o meno estrema, che sproloquia di sostituzione etnica, di invasione e delle presunte ripercussioni negative che verrebbero determinate per le condizioni di vita e di lavoro degli “autoctoni”.
Sono operazioni mediatiche atte a diffondere insicurezza e, al contempo, a coprire il sempre più acuto senso di insicurezza sociale di precarietà vissuto da sempre maggiori strati di popolazione e che coinvolge tutti gli aspetti della vita. Ma si tratta di becere argomentazioni che sottolineano la servile subordinazione agli interessi del capitale e alla dinamica dell’accumulazione (che, come argomentato in precedenza, prima muta la propria composizione e crea un esercito di riserva che poi ingrossa con manodopera di ogni provenienza ma che rimane comunque assoggettata alla creazione di profitto) e finalizzate esclusivamente alla divisione della classe e a contrastare ogni possibile ipotesi ricompositiva. Ciò ha creato e progressivamente intensifica una cultura e un’ideologia che marcano sempre più un odio verso il migrante e ciò che rappresenta, che fomentano una falsa rabbia che criminalizza, ghettizza e costruisce categorie da discriminare. Particolarmente evidente è oggi l'islamofobia e l’arabofobia, perno su cui si fonda la politica di partiti governativi (in primis, la Lega di Salvini) e che segna anche un discrimine tra profughi buoni (bianchi e cristiani, come gli ucraini) e indesiderati, oltre che, come detto, utile per frammentare la classe e che prepara la popolazione indigena alla guerra in nome della falsa coscienza del nazionalismo. Ma che assume altresì un riflesso esterno in quanto funzionale alla creazione del consenso necessario per continuare a garantire l’appoggio incondizionato alla genocida entità sionista Israele nei confronti dei palestinesi, descritti sulle colonne dei quotidiani nazionali come “barbari” terroristi.
In sintesi, quindi, lo strutturale eccesso di capacità produttiva (che realizza anche sovrapproduzione di merci e la diminuzione del saggio di profitto) e di sovrapproduzione di capitali che non trovano sbocchi o sono comunque di complessa valorizzazione, la fine del paradigma della globalizzazione per come l’avevamo conosciuto per la progressiva perdita di egemonia dell’imperialismo USA e l’emergere di nuove contraddizioni determinate dallo scontro intercapitalistico e di nuovi poli egemonici, un nuovo paradigma tecnologico dalle molteplici implicazioni e che determinerà un rinnovato mutamento della composizione a detrimento del capitale variabile, l’inflazione e l’aumento (o un’irrisoria diminuzione, come quella appena deliberata dalla BCE che precede la probabile identica scelta della Federal Reserve) dei tassi d’interesse a livello mondiale (dettati da politiche monetarie restrittive) finalizzati al tentativo di mantenere un adeguato livello di profittabilità in primis del settore finanziario ma anche del sotteso e innervato settore industriale, segnalano come la guerra, militarmente intesa, sia tornata a essere un fondamentale fattore di composizione (e di controtendenza “straordinario”) nel sempre più fragile equilibrio dei poteri capitalistici internazionali a caccia del residuo ed esiguo plusvalore.
ll quadro complessivo resta quindi quello della crisi globale del sistema economico/sociale capitalista e del suo modo di produzione e di accumulazione. La sua ideologia teorizza e pratica la massimizzazione dei consumi, lo sfruttamento di donne e uomini, l’accaparramento fino alla sua distruzione delle risorse del pianeta e del profitto fino alla saturazione dei mercati. Questo sistema economico e le sue implicazioni politico/sociali (come detto, il meccanismo concorrenza=guerra insito prima nel suo sviluppo e ora nella sua fase di sopravvivenza e decadimento) stanno conducendo l'intero pianeta verso uno scenario di guerra globale.
In buona sostanza, la guerra torna ad essere il possibile sbocco (e sblocco) della crisi strutturale e l’indicatore primario che svela e descrive la vera natura del capitalismo.
La sua preparazione, declinata da un punto di vista ideologico e culturale, oltre che del rafforzamento del comparto politico/economico/militare, è diventata una priorità per le borghesie nazionali mondiali.
FRONTE INTERNO – RAFFORZAMENTO DELLA TENDENZA ALL’AUTORITARISMO E AL SUPERAMENTO DEL PARLAMENTARISMO BORGHESE – LEGGI REPRESSIVE E DDL 1660
E l’attrezzarsi per affrontare l’instabilità dettata dal contesto descritto nelle righe che precedono impone, anche come anticipato in precedenza, un controllo pervasivo e unificato del potere decisionale sul valore (con particolare riferimento a quello creato nelle produzioni strategiche e, quindi, a quei monopoli che esprimono la forza politica ed economica del capitale nazionale e della macchina statale) evitando e prevenendo la possibile (e auspicabile diciamo noi) esplosione della conflittualità sociale e della lotta di classe. A tal fine, dal punto di vista della dotazione legislativa e della strumentazione giuridica complessivamente intesa (preventiva, cautelare e repressiva), da parte del governo Meloni è in dirittura d’arrivo la predisposizione di una serie di strumenti sicuritari e repressivi necessari a far sì che tale piano scivoli lungo i binari preordinati senza alcuna possibile interruzione di sorta in particolare determinata dal conflitto sociale. Infatti, l’attuale compagine governativa è protagonista e perfetto interprete complessivo delle dinamiche che abbiamo descritto nelle righe che precedono: servile al patto atlantico la cui appartenenza non è in discussione, ultraliberista in economia e subordinato agli interessi e ai profitti del capitale, autoritario alfiere del disciplinamento, della repressione e della irregimentazione dei rapporti sociali, razzista, retrogrado e regressivo sui diritti delle persone LGBTQ+ e delle donne. Un governo che ora vuole dare un’ulteriore stretta alla possibilità di manifestare, di scioperare, di lottare e di manifestare un pensiero critico, attraverso la presentazione di un disegno di legge sulla “sicurezza” (n. 1660 a formale firma dei ministri dell’interno, della giustizia e della difesa: Piantedosi, Nordio e Crosetto) in procinto essere approvato dalle Camere stante la rapida conclusione dell’iter parlamentare.
Un provvedimento che, come è stato da più parti osservato, rappresenta un deciso cambio di paradigma nell’ordinamento nazionale che esaspera le già presenti limitazioni e fattispecie criminalizzatrici del conflitto sociale (è sufficiente ricordare i decreti sicurezza di Minniti e di Salvini) con l’inasprimento dei meccanismi estesi e complessivi di controllo sociale e repressivo, con una gestione caratterizzata sempre più in senso autoritario del potere. Nell’attuale clima di guerra permanente è necessario portare l’attacco contro tutte quelle categorie potenzialmente confliggenti con gli interessi padronali e governativi ovvero con quei soggetti adatti per capitalizzare e fomentare i timori popolari: gli immigrati, gli islamici, ecc. Il rafforzamento della repressione preventiva e della crescente militarizzazione dettata dal contesto descritto, non può che fare il paio con il premierato e i rimandi che questo comporta anche in termini di compiuta realizzazione di una forma di democrazia sempre più autoritaria e uno svuotamento dall'interno della stessa democrazia parlamentare borghese.
Nessuna lotta e forma di protesta, anche di resistenza passiva, risultano escluse dal disegno di legge che certosinamente intende punire e prevenire qualsiasi manifestazione anche della propaganda e del dissenso. La proposta contenuta nel DDL è infatti quella di punire quello che viene definito il “terrorismo della parola” con una pena che va da due a sei anni “chiunque detenga, o faccia circolare, in forma sia scritta che orale, testi ritenuti capaci di sobillare il compimento di atti o resistenze che coinvolgano uffici, istituzioni, servizi pubblici o di pubblica necessità”. Il tutto basato sulla logica di prevenzione e della del compimento di un potenziale “reato”.
Questo disegno introduce poi nuove ipotesi di reati e nuove aggravanti di pena per colpire le manifestazioni contro le guerre (ltra le tante, a solidarietà alla resistenza palestinese contro il sionismo e il genocidio da questo perpetrato a danno della popolazione di Gaza e ora della Cisgiordania) e quelle contro la costruzione di nuovi insediamenti militari (per fare due esempi di lotte radicate nei territori: a Coltano, nel pisano, contrl la nuova base militare e contro il nuovo comando NATO a Firenze); i picchetti dei facchin* della logistica e di tutti quei settori nei quali si esprime la radicalità operaia; le proteste contro le cosiddette “grandi opere” e le infrastrutture ritenute “strategiche” (la Tav, il ponte sullo stretto, ecc.) e la crisi climatica nella quale siamo costretti a vivere (e quindi le azioni dimostrative e di resistenza passiva di Ultima Generazione, Extiction Rebellion e delle altre organizzazioni ambientaliste); le diverse forme di lotta agite per aumentare la propria efficacia come i blocchi stradali e della circolazione ferroviaria; le occupazioni di case sfitte e i picchetti di solidarietà che le supportano (a tutela esclusiva della proprietà privata). E contiene norme durissime contro qualsiasi forma di protesta e di resistenza, anche passiva, dei detenuti nelle carceri e nei CPR, perfino contro le proteste esterne di familiari e solidali a loro supporto. Viene poi garantita la totale impunità per le forze dell’ordine, le quali saranno ulteriormente tutelate e deresponsabilizzate nei casi sempre più frequenti di “abuso” e potranno portare armi anche fuori servizio: è così data formale legittimazione a una gestione assolutamente aggressiva e repressiva delle piazze e dell’ordine pubblico.
E’ evidente l’assoluta necessità di un movimento che costruisca e diffonda una vasta mobilitazione di opposizione a questo irricevibile e inemendabile disegno di legge il cui fine evidente è quello di prevenire e criminalizzare il conflitto sociale, la lotta di classe e ogni opposizione a chi sta spingendo il mondo intero verso il piano inclinato della guerra globale.
Ma la risposta più efficace rimane ancora il rilancio, la generalizzazione e la ricomposizione delle diverse lotte, passaggi necessari e ineludibili per la costruzione di un’opposizione di classe che le rafforzi e vi dia una prospettiva complessiva in senso anticapitalista. La scelta tra il governo della guerra, del profitto e la conseguente politica economica antiproletaria e un’alternativa di sistema che superi lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna e sulla natura è quindi oggi il terreno sul quale dobbiamo misurarci per la costruzione di una nuova società di liberi e di uguali.
GUERRA ALLA GUERRA IMPERIALISTA!
IL CAPITALISMO NON SI RIFORMA SI ABBATTE!
FERMIAMO IL DDL 1660!
FERMIAMO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE!
Centro Sociale Autogestito Vittoria (Milano)