12 APRILE TUTTE E TUTTI IN PIAZZA! CON LA PALESTINA NEL CUORE!
CON IL POPOLO PALESTINESE E LA SUA RESISTENZA!PALESTINA LIBERA DAL FIUME AL MARE!
Introduzione di metodo:
Le militanti e i militanti del Csa Vittoria hanno da sempre avuto una stella polare: il rispetto dei percorsi collettivi.
Questo vuol dire essere consapevolmente in grado di fare passi indietro come realtà politica per favorire una condivisione allargata ad ogni percorso di lotta.
Dalla solidarietà al popolo palestinese e alla sua Resistenza come elemento discriminante, al contrasto ai nuovi decreti sicurezza, al provare più complessivamente ad “accorciare la vita” ad un sistema economico e sociale fondato manifestamente contro i bisogni naturali di ogni donna e uomo e contro il futuro dell’intero pianeta.
In particolare, sulle modalità del sostegno al popolo palestinese e alla sua legittima Resistenza, ci siamo impegnati con tutte le nostre forze e stiamo ancora facendo il possibile perché le piazze siano riempite ma soprattutto sentite proprie da chiunque senta un moto di ribellione davanti al regime di apartheid, al colonialismo imperialista, alla pulizia etnica e ora al genocidio del popolo palestinese.
Nel rispetto e a partire dal semplice solidarismo, all’empatia, alla solidarietà consapevole, fino alla coscienza anticapitalista e antimperialista. Diverse voci insieme con lo stesso obiettivo: la solidarietà al popolo palestinese e alla sua Resistenza nelle diverse forme in cui essa si rappresenta.
Abbiamo sempre pensato, condividendo razionalmente e emozionalmente quel senso di appartenenza al movimento di solidarietà che ha dato vita al formidabile percorso di 18 mesi di solidarietà milanese, pur trovandoci inaspettatamente di fronte alla bruttura di derive identitarie, settarie ed egemoniche, che la piazza milanese sia stata e debba rimanere il prodotto di processi collettivi larghi e il più possibile condivisi. Senza però cedere di un passo dalla solidarietà alla Resistenza come elemento discriminante, senza passi indietro da una critica antimperialista, ma con la chiara consapevolezza della differenza abissale di merito/metodo tra rigore ideologico, come elemento sostanziale applicato con flessibilità (…Lenin) e la superficialità formale dell’inutile e referenziale sloganismo “rivoluzionario”.
Dopo il corteo del 12 decideremo, per esigenza di chiarezza da molte e molti richiesta, se entrare con maggiore incisività nel merito delle contraddizioni di merito e di metodo emerse nel percorso di avvicinamento al corteo nazionale, ma ora non vogliamo in nessun modo anche lontanamente rallentare o frenare una partecipazione che vogliamo invece condivisa, sentita, forte, determinata, unitaria, larga ma soprattutto di massa.
La spinta per permettere una partecipazione più larga possibile e il sentirsi tutte e tutti parte di un unico percorso, si è quindi concretizzata in un appello unitario per il lancio del corteo e la raccolta delle adesioni, che rappresenta il minimo comune denominatore sottoscritto da ogni forza promotrice e nel quale noi ci ritroviamo.
Questo è invece il nostro appello, un ragionamento che vogliamo rassicurare non essere stato scritto né in “politichese” né per slogan, che prova però ad aggiungere contenuti e che prova ad unire i punti di uno scontro globale epocale che passa anche attraverso il genocidio palestinese e che motiva la nostra partecipazione dopo questi 18 mesi di condivisione della piazza milanese. Sabato dopo sabato, boicottaggio dopo boicottaggio, presidio dopo presidio, contestazioni e occupazioni, fianco a fianco con tutte e tutti quelle che, con rabbia, sgomento, dolore, empatia umana o coscienza internazionalista, hanno fatto vivere tutte le mobilitazioni nella consapevolezza che senza la Resistenza oggi non parleremmo più di popolo palestinese e che, come tutte e tutti abbiamo urlato dal 7 ottobre 2023, il popolo palestinese non può essere lasciato solo!

12 APRILE CORTEO NAZIONALE A MILANO per una PALESTINA LIBERA!
ore 14.30 Piazza Duca D’Aosta
PER fermare il genocidio e la deportazione del popolo palestinese a Gaza e Cisgiordania.
PER fermare il riarmo e l’economia di guerra come soluzione alla crisi di un sistema economico basato sullo sfruttamento di classe e la depredazione di ogni risorsa del pianeta.
PER fermare il decreto sicurezza – NO allo stato di polizia.
Il 12 aprile torneremo a riempire Milano ma non sarà una festa.
La Palestina giorno dopo giorno sta morendo sotto i colpi di un occidente imperialista che ha deciso che il popolo palestinese debba morire a meno che non “acconsenta “una deportazione di massa che presentano come piano di “pace”. Lo stesso identico destino riservato ai “nativi americani” dopo la cosiddetta “scoperta” dell’America.
180190/200.000? Possiamo solo ipotizzare quale sia il numero reale dei morti, dei feriti e dei cosiddetti dispersi; donne. uomini, bambine e bambini schiacciati, triturati e sepolti sotto macerie che ricoprono l’intera Gaza e come ora i campi profughi di Jenin e Tulkarem in Cisgiordania. O in fosse comuni come quella dove, qualche giorno fa, sono stati ritrovati medici e infermieri con le mani legate dietro la schiena e uccisi con una esecuzione a freddo dalle brigate nere fasciste, dalle SS naziste, dagli squadroni della morte sudamericani, che ognuno chiami come vuole, con il massimo dell’odio e del disprezzo, i macellai con la divisa dell’esercito dell’entità sionista chiamata Israele.
Ma tutto questo non è casuale o il prodotto dalla semplice bestialità disumana di qualche assassino perché questa è semplicemente una delle “campagne di sterminio di massa più estese e sistematiche della storia contemporanea” (da Infopal). Questo è semplicemente e criminalmente un genocidio.
Un olocausto il genocidio palestinese, che continuiamo a dire non essere “casuale” o ascrivibile alla particolare ferocia di Netanyahu ma, al contrario, scritto con lettere di sangue fin dall’inizio nella strategia sionista di una grande Israele. La violenza terroristica è parte integrante, è un anello del DNA, del codice genetico del movimento politico sionista fondamento dell’entità sionista Israele che nasce con un’occupazione e un progressivo dilagare di insediamenti e colonie ben prima del 1948. La NAKBA, la tragedia, data ufficiale dell’entità sionista “Israele” diventata ufficialmente “stato ebraico” dal 2018, sancendo così per legge il carattere discriminatorio e razzista della società ebraico-sionista. Definendo e ufficializzando così, per legge, la condizione di apartheid per tutta la popolazione arabo-palestinese non ebraica. Ma di questo non si può parlare e anche molte e molti “ben pensanti” paiono non accorgersene per la paura di essere tacciati di antisemitismo. Un’accusa infamante giustamente rivolta verso fascisti e nazisti diventata ormai un’arma ormai utilizzata per criminalizzare e infangare ogni tipo di critica ai crimini israeliani, un metodo pianificato per confondere e far assimilare la religione ebraica per la quale decine di migliaia di ebrei della diaspora scendono in piazza contro il genocidio palestinese, con la belva sanguinaria che è invece l’ideologia sionista.
Il messaggio messianico della terra promessa diventa la scusa per spargere sangue e rubare vite e terra palestinese. E questo vuol dire che il fondamentalismo ebraico-sionista è solo la sovrastruttura ideologica di un piano coloniale di insediamento e di furto di risorse del pacifico popolo palestinese. (ad esempio, giacimenti di gas nel mare davanti Gaza di cui sta provando ad appropriarsi l’italianissima ENI) e, come dato strutturale del modo di produzione e del sistema economico politico capitalista, tutto si riduce più semplicemente alla lotta tra profitto e umanità. Tra capitale e lavoro. Tra imperialismo e il bisogno primario di liberazione delle classi subalterne dalle catene del colonialismo occidentale.
Per questo lo schierarsi a fianco della lotta di liberazione palestinese dal colonialismo sionista vuol dire camminare sulla strada della solidarietà internazionalista perché il loro nemico è il nostro nemico. perché la Resistenza palestinese è la nostra Resistenza. Per questo il difendere e solidarizzare con il popolo palestinese vuol dire lottare contro il governo Meloni complice del sionismo assassino e genocida. Per questo la loro lotta è la nostra lotta. Perché la loro sofferenza è la nostra sofferenza. Per questo parlare del genocidio in corso, l’inchiodare al muro della vergogna l’impunità sionista, per la protezione e la complicità del blocco occidentale, vuol dire parlare degli effetti disumani e tragici di uno scontro globale per l’egemonia sul pianeta in cui il popolo palestinese è solo carne da macello da immolare sull’altare della guerra tra imperialismi. Un granello di polvere di due milioni e duecentomila persone da spazzare via come voluto dal Piano Trump. Abbiamo già detto e scritto molto negli ultimi 18 mesi sull’ entità sionista israele come l’ultima grande colonia dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Fin dal primo congresso sionista a cavallo del 1900 Theodor Herzl, teorico del movimento sionista, affermava che lo stato ebraico a venire sarebbe stato il rappresentante, il punto di forza dell’occidente, (noi diremmo dell’imperialismo occidentale) in Medio Oriente.
Ed è su questo presupposto che si impernia la difesa, anzi il sostegno politico, economico e militare, senza più limiti o confini del piccolo stato canaglia. Per questo interesse strategico si sono demolite le cosiddette “istituzioni democratiche internazionali” come l’ONU fino all’accusa di essere colluse con il “terrorismo”. Istituzioni già da sempre copertura degli interessi dell’imperialismo statunitense ed espressione di rapporti di forza all’interno del quadro internazionale ora diventate inutili e dannose per l’immagine degli aguzzini sionisti. per l’oggettiva denuncia dei crimini contro l’umanità commessi della banda sionista.

E veniamo quindi al meccanismo economico/politico che regola, scandisce la vita o ne decreta la morte per miliardi di esseri umani. L’intero pianeta è considerato e viene teorizzato essere terra di conquista dall’arroganza dell’imperialismo nelle sue diverse espressioni e il suo espansionismo coloniale basato sullo sfruttamento di esseri umani e delle risorse del pianeta. Ma questa formulazione, pur corretta nella sua semplicità, non è più sufficiente a descrivere il quadro generale.
Crediamo sia ormai evidente e sotto gli occhi di tutte e tutti, la crisi strutturale di un sistema economico/politico/sociale basato sulla massimizzazione dei profitti, sulla dilatazione senza limite dei consumi e sulla valorizzazione (bolle) finanziaria di enormi capitali.
La feroce concorrenza internazionale tra l’imperialismo occidentale e le potenze economiche emergenti per accaparrarsi nuovi mercati ancora non saturi e per trovare nuovi territori dove investire in speculazioni finanziarie, ha accelerato i processi di scontro economico e militare in tutto su scala mondiale. Per chi volesse analizzare meno superficialmente la situazione consiglieremmo di guardare con attenzione alla tendenza verso processi di centralizzazione tra blocchi di aggregazione monopolistica (settore auto ad esempio) che indicano chiaramente una delle soluzioni per contrastare la concorrenza internazionale come evidente processo di crisi strutturale dell’imperialismo mondiale. Ma non sono questi macro-dati da ricerca economico/politica ad essere più socialmente impattanti nelle nostre vite quotidiane ma quello che è invece prioritariamente sotto i nostri occhi è un processo globale di tendenza alla guerra che sta progressivamente cominciando a modificare e trasformare le economie (i diversi capitalismi nazionali) dei paesi coinvolti nello scontro interimperialistico in economie di guerra.
Bisognerebbe proprio essere ciechi o serve e servi per non accorgersi come la guerra in Ucraina, evidente prodotto di uno scontro tra imperialismi (con caratteristiche diverse), ha pesato sulla nostra vita quotidiana per l’aumento mai recuperato del costo dell’energia che ha trascinato verso l’alto ogni altro prodotto commercializzato sui banconi di negozi e supermercati.
Bisogna solo essere in mala fede o dei meloniani per non comprendere che il protezionismo trumpiano e la “guerra dei dazi” in corso non siano che l’espressione della volontà di scaricare la propria crisi sul mondo intero e di come questa guerra economica non sia altro che l’anticamera di una guerra praticata con le armi.
La tendenza allo scontro globale per l’egemonia e l’accaparramento di nuovi mercati e risorse energetiche per vecchie e nuove produzioni tecnologiche è già organicamente indicativo di una crisi strutturale del sistema capitalistico. Una crisi globale, evidentemente insuperabile in altro modo, che non solo induce i capitalismi nazionali, o le aggregazioni tra questi, verso una corsa al riarmo senza precedenti se non in fasi di guerra conclamata. Ma che esplicitamente e consapevolmente traccia una direzione strategica verso il riarmo (dichiarazioni programmatiche di Draghi e Von der Leyen), con impegno diretto dei diversi stati anche in joint-venture per blocchi di potere (esempio la italica Leonardo con la teutonica Rheinmetall per la produzione di carri armati), verso l’incremento vertiginoso della spesa bellica nelle sue diverse accezioni, verso la promozione del comparto economico/militare in funzione di un nuovo ciclo di valorizzazione dei capitali investiti in armamenti. Una forma, come già segnalavamo, di Keynesismo di guerra che non contempla unicamente una modificazione delle aziende da, esempio, aziende metalmeccaniche o del automotive in aziende produttrici di carri armati o veicoli militari. Non solo una trasformazione della ricerca scientifica in funzione della produzione di nuove armi efficaci per uccidere il più alto numero di esseri umani al minor prezzo, a cui va ascritto il famoso dual use contestato dalla ricerca universitaria. Non solo un nuovo impulso verso l’utilizzo dell’IA in una traiettoria bellicista oltre che in funzione di controllo e consenso sociale.
Ma tutto un pacchetto economico/politico/sociale bellicista in funzione di una nuova ripresa economica, di un rialzo del P.I.L. In estrema sintesi un nuovo ciclo di valorizzazione del capitale che produca profitti e dividendi per i diversi capitalismi nazionali e l’imperialismo e, di conseguenza, i governi nazionali nel loro ruolo di comitato d’affari della classe al potere, stanno provando a convincerci che guerra e armamenti saranno garanzia e strumento di sviluppo economico e sociale.

E’ finita l’era dei conigli – Rivolta operaia del 1969
FRONTE INTERNO – NO ALLO STATO DI POLIZIA
Abbiamo parlato di tendenza alla guerra e di economia di guerra. Questa comporta una verticalizzazione del comando, un’esecutività dello stesso, comporta l’imposizione di un disciplinamento sociale che si è concretizzata con la presentazione del disegno di leggo DDL 1660 poi trasformato in un più diretto decreto-legge “SICUREZZA” applicabile con effetto immediato. Un fronte interno che la classe al potere sta gestendo con sempre maggiore autoritarismo perché la tendenza alla guerra è rivolta anche verso di noi.
Noi classe, noi lavoratori e lavoratrici, noi studenti, precari, disoccupate, noi immigrati con il nostro ruolo di schiavi e schiave invisibili, noi donne nel ruolo di subordinazione culturale ed economica in una società patriarcale. Abbiamo già scritto, denunciato e analizzato molto sul securitarismo del governo delle destre nel suo ruolo di cane da guardia degli interessi del capitalismo italiano e non ci dilungheremo oltre su questo aspetto. Vogliamo solo ora sottolineare un elemento per noi sostanziale nella lotta contro queste misure che hanno spostato a destra il baricentro delle relazioni sociali.
Quando si affronta la questione di una mobilitazione di massa del nuovo decreto sicurezza riteniamo superficiale parlare solo di misure repressive. Crediamo sia parziale e limitativo pensare a queste misure solo come una manifestazione di repressione rivolta solo contro le “avanguardie”. Sarebbe borioso, infantile e autoreferenziale parlare di “controrivoluzione preventiva” in assenza di processi rivoluzionari ma, se la tendenza alla guerra e all’economia di guerra sono la cornice in cui agiscono le contraddizioni sociali, è conseguente comprendere quanto sia necessario per il governo della borghesia e funzionale a questo dato di contesto, difendere anche da un punto di vista legislativo e non solo i processi decisionali dal punto di vista economico politico e sociale. Il “comando” deve essere diretto, esecutivo, e la stessa cosiddetta “democrazia parlamentare” diventa, in questo modo, un ostacolo nella gestione delle relazioni sociali in senso sempre più esplicitamente autoritario.
La crisi economica, la tendenza alla guerra, la trasformazione dello stato sono quindi elementi concatenati in uno stretto legame di funzionalità alla sopravvivenza del modo di produzione capitalistico.
Il nuovo decreto sicurezza non è quindi solo repressione, ma è il sintomo di una trasformazione in corso per gestire meglio eventuali insorgenze sociali, per rendere le classi subalterne sempre più disponibili al proprio sfruttamento sino all’essere pronte alla guerra per la difesa della stessa nazione da cui sono sfruttate. La stessa profilazione razziale che emerge dall’istituzione delle zone rosse dichiara la struttura razzista del provvedimento che fiancheggia il decreto sicurezza più fascista dall’entrata in vigore del famigerato codice Rocco in pieno regime mussoliniano nel 1930. Disciplinamento sociale, azzeramento della critica, irreggimentazione, cultura dell’obbedienza, proposizione dei sub valori del nazionalismo e del militarismo fascista, odio del diverso/a che non rientra nei canoni della “tradizione”, il richiamo alla “patria” alle radici ??, all’ordine e alla disciplina sono gli elementi di contorno e di supporto ideologico ad un disciplinamento sociale indispensabile in una società che dovrà essere sempre più militarizzata anche con ingresso sempre più organico delle “forze armate” nelle scuole fino al paventato ripristino del servizio militare.
Più in particolare questo nuovo decreto-legge “sicurezza” tocca i diversi settori di un possibile conflitto. Diritto alla casa, lotte operaie, diritto di sciopero, proteste ambientaliste, lotta alle inutili grandi opere, repressione nelle carceri o nei centri per migranti. L’obiettivo è, come sempre nell’ambito dell’abitudine congenita alla repressione dello stato borghese, gestire come tema di ordine pubblico i diversi livelli e specificità della conflittualità sociale mentre invece l’unica vera sicurezza è la garanzia di un lavoro, di una casa, di un salario, del diritto alla cultura, del diritto ad una sanità universalistica, del diritto ad una vita non precaria e da sfruttati/e, a socialità non mercificata.
Davanti a questo livello di trasformazione dello stesso “diritto borghese” crediamo necessario fare un passo indietro come soggettività politiche e come organizzazioni sindacali conflittuali e lavorare collettivamente per permettere di farne 1000 in avanti come movimento di classe. Si tratta di lavorare in un processo collettivo per far convergere i diversi settori in un unico fronte di lotta, un fronte di classe che leghi la solidarietà internazionalista con il praticare il conflitto all’interno delle contraddizioni sociali. Un movimento di classe che indichi la strada per una trasformazione rivoluzionaria dell’esistente fatto di miseria e di guerra.
PER UNA SOCIETA’ DI LIBERE/I E UGUALI SENZA PIU’ CLASSI NÉ SFRUTTAMENTO
CHE METTA AL CENTRO I BISOGNI DI DONNE E UOMINI E NON IL PROFITTO PER IL CAPITALE.
CON LA PALESTINA NEL CUORE!
Le compagne e i compagni del Csa Vittoria
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