Tra liberismo e keynesismo facciamo pagare la crisi (anche quella sanitaria) al capitale

Inviato da redazione il Mer, 15/04/2020 - 18:50
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murale diego rivera

Dopo l’assemblea nazionale del 2 aprile: una breve riflessione per rilanciare la proposta unificante di un’autonomia di pensiero, strategia e percorso di lotta da un punto di vista di classe.

In ogni istante della nostra giornata siamo bombardati dalla retorica domanda sul come saremo come persone e come società quando “usciremo” dalla crisi sanitaria. Chiusi come siamo nella forbice tra chi, con pessimismo vede il rinchiudersi in sé stessa, nella diffidenza o tuttalpiù nell’indifferenza verso gli altri, di una società già prima dell’emergenza poco definibile indirizzata verso un generico bene comune e chi, con un volontaristico ottimismo, intravede o auspica l’opportunità di un “risveglio delle coscienze” che sappia porre rimedio all’imbarbarimento dei rapporti economici e sociali invece strutturali di questa società.

Cercando invece di uscire da un approccio meramente sociologico entrando nel merito più complessivo delle questioni poste, dobbiamo invece provare ad arrivare, per definirla nelle sue cause e connessioni epocali, alla sintesi delle contraddizioni venute al pettine con l’esplosione di questa emergenza sanitaria. Questa crisi sanitaria, diventata pandemia mondiale, ha ormai chiara e acclarata origine in un modo di produzione che devastando i sistemi ecologici con l’industrializzazione e l’agroindustria, lo sfruttamento selvaggio e intensivo di animali, dei terreni coltivabili e complessivamente dell’ambiente che ci circonda, ha fatto emergere problematiche latenti in natura e nuove forme di contaminazione (zoonosi) tra essere umano e animali.

Gli allevamenti intensivi, il land grabbing, l’urbanizzazione esasperata e la deforestazione selvaggia sono, quasi a un punto di non ritorno, le cause oggettive ed inconfutabili di questa come delle precedenti epidemie e possiamo citare la febbre suina dai maiali o le influenze aviarie dagli allevamenti intensivi di polli o altre più legate più alla deforestazione e con un altissimo tasso di letalità come l'ebola per i contatti più ravvicinati di della foresta scimmie con l’uomo. Citeremo anche l’epidemia della cosiddetta “mucca pazza” (animali erbivori nutriti per l’ottimizzazione del profitto con scarti di altri animali…) come casistica esemplare di questo modo capitalistico di intendere il “progresso della società umana”.

Ci domandiamo però a questo punto, in barba agli scettici, a chi non vuol sentire e capire, e ai revisionisti di ogni genere e formazione culturale o politica, come potremmo definir meglio questa situazione se non utilizzando le parole di K. Marx che già a metà del diciannovesimo secolo definiva il capitalismo come “una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura”.

Tornando al ragionamento iniziale, questa emergenza sanitaria ha anche fatto deflagrare tutte le contraddizioni di un modo di produzione e più in generale di una società che già versava in una gravissima crisi economica produttiva e finanziaria che si esprimeva con l’alternanza tra stagnazione e l’inizio di una recessione molto più evidente nei paesi con un capitalismo meno “forte” e, conseguentemente, meno in grado di resistere alla concorrenza internazionale.

Questo accumulo di crisi ci pone infatti di fronte anche un altro problema e cioè a cosa ci troveremo ad affrontare una volta che questa pandemia sarà non vinta ma almeno sotto controllo. Al di là della pericolosissima sedimentazione dell’abitudine e dell’accettazione più o meno consapevole delle nuove e maggiormente pervasive forme di controllo sociale, provando ad analizzare la complessità della situazione, al di là dell’aspetto anche qui meramente sociologico ed esistenziale delle contraddizioni, notiamo come ci vogliano imporre come oggettive e inevitabili due ipotesi per dare soluzione o, per meglio dire, indirizzo strategico alla drammatica situazione che esploderà alla “riapertura”. Due opzioni che qui elencheremo, ovviamente in maniera riduttiva per esigenza di sintesi, senza entrare nel merito della, seppur importante, ricaduta dal punto di vista dei rapporti sociali che entrambe comportano.

Una “via d’uscita dalla crisi” più organicamente liberista frammista a elementi di “populismo di destra” che riprende la proposta della flat tax al 15 % con l’introduzione di zone franche (a zero tasse) per pagare i debiti elettorali contratti con l’elettorato leghista e del centro destra in generale. Uno “stato di guerra” che richieda un nuovo governo di unità nazionale intorno alla figura di un uomo “forte”, riconosciuto internazionalmente come garante per i mercati, che sappia intraprendere (e continuare) con decisione la strada delle riforme in senso liberista della liberalizzazione e della privatizzazione di molti settori ancora in mano al “pubblico” e di ciò che rimane del “welfare state”, ancora una volta saccheggiandolo, per liberare risorse da reinvestire nel settore privato in relazione all’assioma iperliberista, e non solo, che è solo l’impresa privata che può garantire sviluppo e occupazione.

A questo proposito, come tutti ben sappiamo, il nome che più circola è quello di Draghi … il fautore della famosa “letterina” dell’Europa a Berlusconi con la richiesta precisa di tagli alla spesa pubblica: sanità (sì proprio sanità), scuola, welfare in generale che portò poi al governo Monti.

L’altra faccia della medaglia è ancora quella dell’ipotesi del cosiddetto capitalismo “sociale” che ha avuto molte tipologie di applicazione in relazione ai diversi governi che si sono succeduti in mano al centro sinistra. Anche in questo caso con innesti nel linguaggio e non solo di una buona dose di demagogia populista. Quest’altra opzione sinteticamente prevede da una parte, il sostegno al lavoro dipendente e al lavoro autonomo e, dall’altra, come sostegno all’impresa, l’innesto di 400 miliardi (di debito) di liquidità a livello nazionale con interessi irrisori per la restituzione in un arco di anni ancora non ben definito. Il “pacchetto ideologico” che ne traccia le linee guida è quello di una cooptazione, presentata come inevitabile, delle classi subalterne: in parole povere “siamo tutti nella stessa barca” o con maggior enfasi …. uniti ce la faremo!!!

Il presupposto di questa manovra è però quello di un ingente supporto economico di un’Europa invece sempre più in evidente crisi (della serie: ognuno è sovranista a casa propria e quindi … prima gli italiani e gli spagnoli o prima i tedeschi o prima gli olandesi???) nel suo percorso di formazione quale organico polo capitalista con l’accumulazione di capitale e forza politica per resistere ai fortissimi venti dell’agguerrita concorrenza commerciale che arriva sia da oriente che da occidente. E l’incremento di questa guerra commerciale intercapitalistica si è venuto a definire in questo nuovo contesto mondiale che ha visto lo scomporsi di blocchi di potere storici e delle tradizionali alleanze sia strategiche che tattiche ribaltate dall’acuirsi della crisi e dall’emersione di queste nuove forme di capitalismo sovranista e protezionistico.

Abbiamo cercato in maniera estremamente sintetica di delineare il quadro di contesto provando a definire le prospettive delle diverse fazioni della borghesia arroccate nella strenua difesa dei propri interessi e qui vogliamo denunciare e definire quantomeno criminali le pressioni della confindustria, e in specifico quella lombarda, che sta spingendo per una riapertura delle fabbriche a prescindere dai dati di diffusione dell’epidemia costringendo ancora una volta i lavoratori nella morsa tra profitto e diritto alla vita.

Il presupposto da cui partiamo è che le crisi, anche le più diverse, hanno sempre un’origine e una ricaduta classista, quantomeno per l’evidente e quasi banale considerazione che differenzia tra chi nella crisi non guadagna (il capitale) anche se per il capitale finanziario ogni crisi è occasione di profitto speculativo) e tra chi nella crisi non riesce a sopravvivere (il lavoro). La questione da sciogliere che oggettivamente si pone, è che qualsiasi sia la ricetta proposta, questa andrà a pesare drammaticamente sulla vita di milioni di lavoratori e lavoratrici, qualsiasi sia la loro diversissima tipologia di contratto o di lavoro precario se non drammaticamente e invisibilmente a nero. Ci possiamo quindi aspettare nel prossimo autunno una finanziaria (def) che presenti il conto di questo incremento esponenziale ancora non quantificabile del debito pubblico già in questo momento oltre i 2.400 miliardi (del dicembre 2019) con un rapporto debito Pil del 135 % circa.

Noi non possiamo subordinare le nostre esistenze e farci supinamente avviluppare a questa spirale della compatibilità. Queste diverse “ricette economiche”, più o meno liberiste, non tengono consapevolmente conto della contraddizione primaria, che è quella dell’inizio del nostro ragionamento, e cioè che questo assommarsi di crisi economica finanziaria e sanitaria è l’oggettivo prodotto di un modo di produzione in crisi che continuerà globalmente a sopravvivere tra fiammate e bolle finanziarie speculative, stagnazione e recessione economica, finché le guerre commerciali non si andranno a ridefinire su un reale campo di battaglia o una spallata rivoluzionaria non ribalterà definitamente il tavolo del profitto e del comando per imporre un modello di società dove al centro di ogni aspirazione non ci sia il profitto ma l’essere umano con suoi bisogni più estesi.

Ed ecco che questa possibile maggior diffusione e sedimentazione della coscienza di interessi inconciliabili potrà essere la vera opportunità positiva che il covid 19 ci avrà offerto se la sapremo cogliere.

Questo ragionamento infatti, per essere correttamente sviluppato e non rimanere su piano di idealismo, implica però il non potersi fermare alla denuncia genericamente ideologica del sistema economico e sociale capitalista, ma la necessità di una nuova determinazione politica collettiva e unitaria a livello nazionale per poter uscire da questa crisi, da una parte con una maggiore consapevolezza ideologica da rilanciare con forza a livello di massa e farla uscire dalle più o meno segrete stanze degli ambiti anticapitalisti o delle loro più o meno ampie zone d’influenza, e dall’altra con strumenti di lotta per dare realistiche e praticabili risposte alla materialità dei bisogni e affrontare concretamente le oggettive difficoltà di sopravvivenza.

Abbiamo, a questo proposito. partecipato all’assemblea nazionale del 2 aprile proposta dal SI Cobas e fatto nostra la proposta di confronto nazionale per un possibile patto d’azione che, indicando le responsabilità della crisi, fosse però anche in grado di esprimere una proposta che si qualificasse come esplicitamente di classe.

Vogliamo con queste righe cominciare a rilanciare innanzitutto il messaggio estremamente positivo che qualcosa si sta muovendo da un punto di vista sociale e di classe su un piano nazionale e che questo patto d’azione, per trasformarsi da “programma ideologico” in battaglia politica reale, da elenco di parole d’ordine in concretezza di iniziativa politica e piano di rivendicazione economico, ha bisogno dello sforzo di ogni soggetto individuale e collettività politica, sindacale e sociale, che comprendano la particolarità della fase e facciano propria la proposta di una campagna politica estesa su tutto il territorio nazionale con la piena legittimità di un’articolazione in relazione alle proprie specificità d’intervento.

La proposta che maggiormente rappresenta la sostanza dei presupposti politici sui quali l’assemblea si espressa favorevolmente nel confronto nazionale è la proposta di una patrimoniale del 10 % applicata al 10% degli esponenti del capitalismo nazionale che corrisponde all’incredibile cifra di circa 400 miliardi come risulta dai dati ufficiali al netto di proprietà e fondi investiti nei paradisi fiscali sparsi nel mondo.

E visto che queste riflessioni sono state sviluppate per una diffusione la più ampia possibile, con un linguaggio di facile approccio anche per i meno avvezzi ad analisi complessive e utilizzando anche noi per una volta un pizzico di demagogia populista, potremmo definire assolutamente naturale e corretto che in un momento nel quale si parla del rischio della perdita di milioni di posti di lavoro, di 5 milioni di proletari sotto la soglia della povertà e della dilatazione della fascia di nuove povertà, e visto che la solidarietà pare sia il termine maggiormente diffuso e sbandierato su ogni balcone e in ogni media ... chi ha accaparrato è ora che restituisca!!

Siamo certi che la formulazione di questa proposta (tra le altre) emersa nel dibattito dell’assemblea nazionale del 2 aprile, che noi con queste righe abbiamo cercato di articolare da un punto di vista di classe, si possa prestare a molte critiche e perplessità, che sono le stesse nostre, per il suo carattere anche demagogico e propagandistico, ma crediamo sia anche una necessaria e alternativa indicazione sul come e dove poter reperire le ingenti risorse necessarie alla sopravvivenza per milioni di proletari che però, nel contempo, individua le responsabilità di chi accaparra ricchezze con lo sfruttamento di uomini donne e natura.

Durante l’assemblea nazionale del 2 aprile si sono espresse molte altre rivendicazioni da perseguire con la lotta, tutte naturalmente corrette di principio (difesa e ampliamento della sanità pubblica ad esempio), che danno il quadro di un’alternativa che è di sistema e di modello di società senza fermarsi ad indicare solo la necessità di una semplice redistribuzione di reddito. Crediamo che queste “rivendicazioni”, vogliamo sottolineare pur tutte corrette di principio, richiedano però una seria riflessione dialettica anche sugli strumenti realmente perseguibili per dargli concretezza. Quanto queste indicazioni avranno la forza di essere veicolate per tutto il territorio nazionale e dare vita a un percorso concreto di lotte, ad un patto d’azione che in ogni luogo di lavoro, territorio, ambito di rivendicazione e conflitto sociale sappia esprimere con forza in maniera articolata per ogni specificità d’intervento (è una ripetizione che vale come sottolineatura) la prospettiva della trasformazione radicale dell’esistente in gioco, dipenderà da quanto si saprà mettere in gioco ognuno di quei singoli e soggetti politici, sociali e territoriali, che hanno partecipato e vorranno partecipare a questo percorso ampliandolo e arricchendolo.

Domani 14 aprile si terrà il secondo incontro nazionale dove confermeremo la nostra massima disponibilità a continuare il confronto in attesa di vederci nelle piazze e in ogni luogo di conflitto.

Milano 13 aprile 2020